Arti Marziali
The Master
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- Categoria: Arti Marziali
- Pubblicato Domenica, 21 Febbraio 2016 15:48
- Scritto da Flavio Daniele
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Nel 1995 incontrai per la prima volta il maestro Guo Ming (George) Xu, sono passati venti anni da allora. Venti anni di un rapporto ricco e intenso con un maestro che, oltre ad avere tutte le caratteriste tipiche di un grande maestro, ha quella cifra distintiva che, marzialmente parlando, lo fa essere “diversamente abile” sia come artista marziale sia come persona.
Come artista marziale è un “work in progress” in continua evoluzione, come maestro ha un’apertura mentale più unica che rara che lo porta si a insegnare l’arte che predilige (tai ji quan stile Chen), ma attraverso di essa, allo stesso tempo, a trasmettere tutti quei principi atti a trasformare un praticante in un artista marziale libero da tutti quegli schemi mentali e fisici che ogni arte, inevitabilmente, specie nelle fasi iniziali, si porta dietro e che, se non trascesi, condizioneranno per sempre la libertà espressiva e la crescita.
Insegnare non condizionando non è cosa semplice come potrebbe sembrare, perché richiede un’abilità particolare nel guidare la crescita senza forzare, creando quelle condizioni a contorno perché l’arte emerga quasi spontaneamente dall’allievo come un talento naturale.
Questo richiede, da parte di chi insegna, come prima cosa un “non attaccamento”, una “non identificazione” alla disciplina insegnata ma all’Arte in quanto tale e, in seconda, a quei principi universali insiti nell’essere umano che sono alla base di tutte le tecniche di combattimento.
Principi universali che, una volta appresi e padroneggiati, possono anche essere allenati attraverso la tecnica, ma che non sono contenuti nella tecnica.
La tecnica, per esempio, di proiettarsi in avanti con un potente balzo di un moderno spadaccino sportivo per portare il suo colpo non è tanto dissimile da quella di un antico guerriero, ma quello che sta dietro a questi due gesti è sicuramente diverso perché affondano su degli “atteggiamenti” mentali e su una struttura fisica di natura completamente diversa che bisognerebbe imparare a recuperare e a sviluppare. Se non sono nella tecnica, dove sono? Sono proprio la dove state pensando che siano, là dove tutte le tradizioni marziali insegnano, nel posto più vicino e più lontano allo stesso tempo: dentro noi stessi.
Banale, scontato e anche troppo semplice perché sia preso in considerazione, ma proprio per questo pochi s’impegnano in questa direzione e cercano all’esterno in questa o in quella disciplina, una conoscenza e un modo di essere, che risiede solo in noi stessi come stato potenziale ancestrale che richiede, oltre allo studio della propria disciplina, “particolari” allenamenti.
Cercano, per esempio, la potenza dei colpi nelle braccia e nelle gambe come qualsiasi atleta sportivo, non sapendo che i quattro arti in cui si manifestano le innumerevoli tecniche marziali dei differenti stili, affondano strutturalmente e dinamicamente le loro radici, similmente agli animali, nel tronco, e sono nutriti di forza ed energia da quella segreta sorgente situata nel nostro bacino: il dantian o tanden. Segreta sorgente, di cui molti parlano e pochi allenano, che è nello stesso tempo centro di equilibrio fisico, energetico e mentale da cui tutto parte e a cui tutto ritorna senza la quale la potenza fisica si esaurisce con il passare del tempo.
Primario sarebbe, quindi, dopo lo studio preliminare
(3/5 anni al massimo) orientato all’apprendimento formale del gesto tecnico, dedicare anche tempo e attenzione all’attivazione di questa segreta sorgente e alla connessione profonda della periferia (braccia e gambe) a essa, attraverso la creazione di precisi percorsi di forza interni (vedi fig. 1) che, connettendo la periferia (mani e piedi) al centro (bacino), permettano di coniugare abilità psicofisiche apparentemente opposti quali: potenza/elasticità, stabilità/dinamismo, velocità/lentezza, durezza/morbidezza.
Solo quando braccia e gambe sono connesse al centro che questi paradossi statico-dinamici possono essere superati, e i principi possono essere trasferiti negli arti trasformando un gesto tecnico fine a se stesso in un gesto marziale. Un gesto così fatto, oltrepassando i confini fisici, similmente a quello di un felino, si manifesta spontaneo in tutta la sua efficacia.
Questa spontaneità d’azione (Wu Wei) non va confusa, come la maggior parte pensa, con l’automatismo che si può ottenere con la ripetizione continua e ossessiva da catena di montaggio marziale, molto in voga in un certo modo di intendere l’arte.
Oltre un certo limite, la ripetitività di un gesto o di una combinazione tecnica è di scarsa utilità, ed è funzionale solo nella misura in cui si è in grado, attraverso lo stesso gesto, di attivare modalità altre, di scoprire nuove potenzialità che il gesto stesso nasconde. Questo però richiede una certa cultura marziale che t’insegni cosa devi cercare, dove lo devi cercare e, soprattutto, come lo devi cercare e sviluppare. Ecco forse in questi cosa/dove/come sta la cifra distintiva dell’insegnamento del maestro Xu.
Il cosa cercare, se parliamo di qualità più esterne quali: forza fisica, velocità, scatto ecc., non è difficile da immaginare, e ognuno lo può dire, ma se chiediamo dove cercare allora la questione comincia a complicarsi, diventa complicatissima quando si vuole sapere come cercare, si oscura completamente quando ci si chiede come sviluppare queste fondamentali qualità.
Questo succede perché non sono chiari né la natura di queste qualità (spadaccino sportivo vs guerriero) né tantomeno a) il tipo di rapporto che la velocità deve intrattenere con la potenza, b) la potenza deve intrattenere con l’elasticità, c) l’elasticità deve intrattenere con il rilassamento e d) il rilassamento deve intrattenere con la centratura, il radicamento e la connessione interna.
Qualità di natura “diversa” (come è diversa la potenza monodirezionale di un centometrista e quella multidirezionale di un marzialista), tutte indispensabili che la maggior parte non prende in considerazione nella “diversità funzionale” all’arte marziale. Pochi sono quelli che hanno intuito l’importanza di questa “diversità funzionale”, ancora meno sono quelli che conoscono i metodi specifici per sviluppare una potenza diversa, un’elasticità diversa ecc.
Sperare che queste qualità emergano spontaneamente nella loro specifica funzionalità marziale ripetendo le forme, allenando le tecniche o anche combattendo, è come sperare che guidando tutti i giorni una macchina si diventerà, prima o poi, dei piloti da rally: nessuno penserebbe questo possibile, invece, nelle arti marziali molti pensano che sia sufficiente fare stretching per l’elasticità e pesi per la potenza, e un giorno si diventerà per magia potentemente elastici come felini.
Rilassamento – Consapevolezza – Sensibilità – Percezione
Se passiamo a esaminare qualità più intangibili come, per esempio, il rilassamento ci si renderà subito conto che è una delle più fraintese, mentre nella realtà dei fatti, è la qualità che sta al centro di tutto (vedi fig. 2). Esso è condizione prima, durante e dopo la pratica: pensare che la forza e la potenza d’impatto nascano da muscoli tesi allo spasimo non è solo sbagliato, ma anche dannoso. Senza rilassamento la connessione interna di tutto il corpo al centro del dantian/tanden non si realizzerà mai, senza connessione la potenza non si coniugherà con l’elasticità e la velocità con la stabilità. Senza tutto questo dopo pochi anni si comincerà ad ansimare come buoi al traino, braccia e gambe diventeranno sempre più pesanti, sempre più rigidi, i riflessi diventeranno sempre più lenti, così che un giovane atleta, poco rispettoso, potrebbe vanificare con una tecnica ben assestata trenta e passa anni di esperienza.
Se pochi si rendono conto dell’importanza del rilassamento come qualità marziale, ancora meno sono quelli che sanno di un’altra parola chiave che correttamente compresa, aprirebbe il forziere dei “segreti marziali”: la consapevolezza.
Consapevolezza, ripeteva continuamente il maestro Xu in quel mio primo incontro nel lontano 1995, e a me veniva da ridere pensando alla faccia che avrebbero fatto i miei rudi compagni di pratica, che pochi anni prima avevo lasciato al loro destino, a sentire quella parola.
D'altronde, come dargli torto, abituati come eravamo, allo sforzo continuo che toglie il respiro e rende il corpo duro, insensibile e sordo ai suoi stessi errori?
Essere consapevoli di quello che si fa, essere consapevoli del proprio corpo, sapere quali sono i rapporti dinamici tra le varie parti strutturali, come connettere parte alta e parte bassa, destra e sinistra, posteriore e anteriore. Sapere da dove deve partire la forza, guidarla con intenzione cosciente lungo il percorso che deve seguire per generare un gesto fluido e potente, entrare dentro la scatola nera della nostra mente, seguire i meandri interni dei nostri pensieri ed emozioni, ascoltare le proprie ossa e sentire i muscoli avvolgersi intorno, sentire la propria energia propagarsi e impregnare tutto il corpo, saperla guidare a questo serve questa magica parolina. Parolina a cui se ne aggiunge un’altra come naturale e logica conseguenza, ancora più impalpabile ed evanescente: sensibilità.
Ovviamente non intesa come qualità d’animo, ma come sensibilità neurosensoriale che apre le porte di un’altra fondamentale qualità marziale: la percezione. Senza di essa, senza essere in grado di intuire le intenzioni/azioni del nostro avversario così da fare la cosa giusta, nel modo e nel momento giusti, i calci e i pugni sono solo calci e pugni, che possono anche fare molto male, ma tali restano e non evolveranno mai in un gesto consapevole in grado di cambiare un praticante in un artista marziale.
In quel lontano 1995 presi pienamente coscienza che i principi contenuti nell’arte non si palesano da soli se non ti viene insegnato come estrarli. Puoi anche “intuire” dopo anni di pratica che ci sono e dove sono, ma se non sai come estrarli la disciplina praticata, qualunque essa sia, comincerà, prima o poi, a mostrare i suoi limiti e gli anni accumulandosi, con costante monotonia, creeranno solo un senso di alienante frustrazione.
E’ un’arte a parte che ti deve essere insegnata, non si può imparare da autodidatta, perché frutto della ricerca/esperienza d’intere generazioni di maestri: deve essere trasmessa direttamente da cuore a cuore da corpo a corpo.
Senza la conoscenza di questa specifica e raffinata arte di ricerca/sviluppo tutto è affidato al caso e si rischia di non capire mai che ognuno di noi dispone di un terreno ricco di minerali preziosi e di fonti di energia rinnovabile a cui attingere, si rischia di girare a vuoto alla ricerca dell’”isola che non c’è”.
Ci vuole un’adeguata preparazione e un lavoro di trasformazione profonda a livello fisico, mentale e, soprattutto, energetico, affinché la marzialità si possa iscrivere nelle ossa, nei muscoli, nei circuiti mentali ed emozionali. Ci vuole un diverso e più potente cablaggio di tutti i circuiti interni (fisici e mentali) affinché l’energia vitale possa scorrere fluida e potente, affinché il nostro corpo si possa muovere con grazia e potenza come quello di un animale allo stato brado. Per questo, anche se necessari non sono affatto sufficienti lo studio delle forme, delle tecniche e neanche un certo tipo di combattimento “cosiddetto” marziale.
Prima di finire ci tengo a chiarire che non sto affermando l’inutilità della tecnica, né tantomeno sto propugnando una libertà anarchica tipica dei nostri giorni, dove il primo che si sveglia crea un nuovo stile di combattimento, ma sto suggerendo che, forse, il cuore pulsante della marzialità risiede altrove. Un “altrove” che affinché si palesi richiede un cambio totale di paradigma, una rivoluzione copernicana che vede al centro non l’arte praticata, ma l’artista che pratica.
Mettere al centro colui che pratica significa mettere al centro sé stessi, mettere al centro sé stessi significa scoprire le proprie potenzialità. Scoprire le proprie potenzialità significa, a un certo punto, andare oltre la tecnica, significa trascendere l’arte.